2_ LA DEPORTAZIONE A MONTELUPO E 8 MARZO 1944

Ultima modifica: 9 Agosto 2023

La guerra civile

In questa cornice, con una Italia divisa in due, con gli eserciti alleati in risalita lungo lo stivale, con la presenza di attrezzate e ben armate truppe tedesche in ritirata e un governo quasi totalmente in balia dei tedeschi, la violenza più estrema attraversò il nostro paese. Oltre alle migliaia di morti per i bombardamenti alleati (che continuarono in maniera pesante anche se l’Italia monarchica era ormai “co-belligerante”), le forze armate tedesche (Wehrmacht, SS, ecc…) compirono numerose stragi di civili attuando la strategia della “terra bruciata”. Inoltre le forze di polizia della RSI erano state demandate alla lotta antipartigiana che fu condotta con una brutalità quasi inconcepibile (tipica della cd. “guerre civili”) e allargò la spirale di sangue in cui l’Italia era ormai precipitata.

In questo scenario le condizioni di vita della gente comune era divenuta molto difficile. Le attività produttive (ovviamente nella parte che rimaneva in mano alla RSI ed ai tedeschi) venivano utilizzate dalle truppe tedesche per lo sforzo bellico.

Gli scioperi

Proprio da quel mondo, quello operaio, così come era stato l’acerrimo nemico degli inizi verso il fascismo, venne un atto di resistenza del quale oggi è difficile cogliere l’importanza e il coraggio.

Nei primi giorni del 1944, infatti, nelle città del triangolo industriale (quindi anche il “nerbo” produttivo della stessa RSI) fu messo in atto un grandissimo sciopero del quale parlarono anche giornali statunitensi. Fu uno sciopero contro il lavoro divenuto pesantissimo, contro la fame, ma fu soprattutto uno sciopero politico contro la guerra e il fascismo. L’enorme e imprevista riuscita dell’astensione dal lavoro (segno che ormai la RSI non aveva più nessun controllo sui propri “cittadini)” provocò una violentissima reazione da parte nazista che chiese una punizione esemplare, prontamente e supinamente messa in atto dalle strutture della repubblica sociale.

La deportazione

La deportazione di 21 cittadini dal Comune di Montelupo, la notte fra il 7 e l’8 marzo del 1944 verso i campi di concentramento austriaci, si inserisce quindi nel più ampio contesto del secondo conflitto mondiale, della specificità della conduzione della guerra da parte della Germania nazista e delle vicende relative alla repubblica sociale italiana di cui abbiamo brevemente accennato

La Comunità di Montelupo Fiorentino è stata irrimediabilmente ferita dalla deportazione politica del marzo del 1944. Tanto che i segni di tale lacerazione si avvertono ancora nel tessuto sociale cittadino e si leggono nei numerosi cippi, monumenti, lapidi presenti sul territorio oltreché nella toponomastica cittadina.

L’instabilità politica degli anni della guerra portò l’azione di deportazione a incidere su una Montelupo già profondamente provata dalla miseria, dalla fame, dalla mancanza di una speranza per il futuro. Gli echi del conflitto bellico si erano già fatti sentire in occasione del bombardamento di Empoli (26 dicembre 1943), chiaramente avvertito da Montelupo.

La deportazione fu una conseguenza diretta degli scioperi del marzo del 1944. Essa faceva parte di quella rappresaglia messa in atto dalla RSI e richiesta dai tedeschi. La punizione era quindi l’invio di parte della popolazione nei campi di concentramento che il regime nazista aveva disseminato in Europa.

Il sistema concentrazionario

Pochi mesi dopo la presa del potere, nel gennaio del 1933 (avvenuta anche in Germania mischiando violenza e metodi legali, con l’aggiunta, rispetto al fascismo, di un maggiore consenso elettorale) il nazionalsocialismo costruì il primo campo di concentramento a Dachau, riservato agli oppositori politici. Il sistema dei campi è stato un mondo di estrema complessità, nel quale gli obiettivi, le modalità di conduzione, le finalità, si sono trasformate nel corso della storia, spesso in maniera apparentemente caotica. Il sistema acuì la propria capacità di morte dopo lo scoppio della guerra, quando nei campi iniziarono ad essere internati i prigionieri polacchi (verso cui non veniva applicata la convenzione di Ginevra), mentre l’esercito avviava un percorso di eliminazione fisica di massa attraverso fucilazioni collettive di polacchi ed ebrei. Con l’invasione dell’URSS, il 21 giugno del 1941, la condotta criminale della guerra da parte dei tedeschi subì una fortissima accelerazione. I primi campi di sterminio (cioè dedicati all’eliminazione fisica) furono costruiti per i prigionieri sovietici. Con l’aumento del numero di ebrei catturati, le problematiche relative alle gestione dei ghetti ove erano stati rinchiusi, quelle legate alle fucilazioni di massa, si cominciò a cambiare metodologia, con l’uccisione all’interno dei campi in varie modalità. Si ripresero anche i metodi che il regime aveva usato per eliminare i disabili con il progetto T4. In questa fase l’intera Europa era disseminata di campi, con caratteristiche diverse (sterminio, lavoro, ecc..) non è qui possibile neppure accennare alla complessità di questo “universo”. È importante però comprendere che nel 1944, con la situazione militare sempre più tragica per i tedeschi, più che lo sterminio puro e semplice, adesso era utile che i prigionieri nei campi, prima di morire, venissero sfruttati al massimo per le esigenze belliche. Attività a dire il vero che non portarono nessun effetto particolarmente significativo per la Germania in guerra. Ma questo accenno è utile per comprendere, in parte le motivazioni della deportazione del marzo 1944.

8 marzo 1944

Proporzionalmente alla popolazione, il numero dei deportati politici da Montelupo Fiorentino nel marzo del 1944, fu notevole. Ciò rispetto ai centri più grandi di Empoli, Firenze, Torino, Milano, tanto da incidere sull’intera trama sociale del paese.

Montelupo Fiorentino contava all’epoca dei fatti circa 7 mila abitanti e la conoscenza personale e le connessioni familiari tra i cittadini erano normali: tutti conoscevano tutti o vi erano addirittura imparentati. Ciò è dimostrato anche dalle relazioni familiari nel campione dei circa 30 rastrellati e dei 21 uomini effettivamente deportati da Montelupo tra il 7 e l’8 marzo del 1944. Inoltre vi erano relazioni consuete tra vittime e carnefici, (medesima scuola per i figli, medesimi negozi frequentati ad esempio), sia prima della deportazione politica, a deportazione avvenuta quando i familiari rimasti a Montelupo dovettero convivere con l’improvvisa scomparsa del proprio capofamiglia di cui non conoscevano la sorte, e dopo il rientro dei soli 5 superstiti dai campi nazionalsocialisti.

Pochissimi tra i montelupini oggetto di rastrellamento tentarono la fuga, convinti di non aver fatto niente e per paura di ritorsioni sui propri familiari. D’altra parte nessuno aveva contezza dell’esistenza dei campi di concentramento e di sterminio nazisti: si pensava al massimo a una permanenza temporanea in luoghi di lavoro forzato, come successe in seguito per azioni successive di deportazione, avvenute anche a Montelupo nel luglio del 1944, poco prima del passaggio del fronte.

Per fortuna questa Comunità può non annoverare nella propria storia locale episodi di vendette sanguinose operate dai superstiti o dai familiari delle vittime della deportazione contro i concittadini che eseguirono l’ordine nazionalsocialista e che, per motivi che possiamo solo immaginare, abbiano portato a scegliere persone che non solo non avevano avuto ruolo attivo negli scioperi nelle fabbriche, ma in qualche caso che furono rastrellati per casualità o per vendette meramente personali, solo per raggiungere il numero con tutta probabilità richiesto nell’ordine giunto dalle SS. I fatti ascoltati nelle testimonianze orali si limitano a qualche cazzotto, tafferuglio o taglio forzato dei capelli.

A tutt’oggi i familiari dei deportati fanno fatica enorme a raccontare gli avvenimenti, e lo hanno dimostrato anche quando è stato chiesto loro di venire a portare le testimonianze nelle nove sezioni delle classi terze della scuola primaria di secondo grado Baccio da Montelupo. Non parlano ancora liberamente neppure dell’identità dei carnefici, a distanza di 79 anni, per timore di accendere nuovamente conflitti in paese, evidentemente ancora irrisolti. Ulteriore prova è riscontrabile nella non volontà di intervenire in causa per i ristori di cui al DL 36/2022 da parte di alcuni di loro, proprio invocando il dolore che il solo parlare della perdita del padre o del nonno provoca loro: elemento tra gli altri che ha fatto decidere questa Amministrazione a intervenire in giudizio.

Le famiglie dei deportati dopo il marzo del 1944 si trovarono isolate, e non oggetto di solidarietà per quanto avvenuto come si potrebbe immaginare. Questo per motivi che qui risulta difficile indagare analiticamente: probabilmente per non venire accomunati ai deportati per paura di una repressione nei propri confronti, o imputando ai deportati colpe o comportamenti solo immaginati che li avessero giustamente resi oggetto della repressione nazifascista. Ciò fu elemento importante delle lacerazioni qui descritte.

Così come per i superstiti ci vollero anni per tornare a esprimersi e provare a raccontare ciò che era avvenuto nei lager: le persone non credevano a quegli orrori fuori dalla comprensibilità umana, oppure pensavano che, visto che erano riusciti a tornare, ciò fosse prova di una loro connivenza col regime nazionalsocialista che invece aveva sterminato i 16 loro compagni di sventura rastrellati su ordine tedesco da Montelupo. Per uno di loro Aldo Gino Sonnini i postumi dell’esperienza dei lager furono causa dello sviluppo di una malattia mentale.

La pubblicazione di Massimo Carrai del 2004, edita da Nuova Stampa per il Comune di Montelupo Fiorentino, esprime bene il senso della ferita comunitaria subita e ancora aperta: “Il mio obiettivo è quello di far luce sulla deportazione come dramma collettivo, sull’impatto che essa ebbe sulla comunità, e su come questa reagì a un evento sociale e umano oltreché politico e militare, così devastante.” (cfr. pag. 22). Dalla stessa pubblicazione può essere rilevato l’elenco analitico dei deportati.

Per molti anni dal 1946 in poi non fu festeggiato l’8 marzo la festa della donna, in solidarietà delle vedove dei deportati, ma solo l’anniversario della deportazione politica.

Da quanto descritto sono evidenti alcune questioni:

La cattura dei cittadini deportati non avvenne in maniera particolarmente cruenta e fu messa in atto da altri montelupini che non esitarono a mandare a morte certa conoscenti, amici e in qualche caso parenti. La comunità di Montelupo, negli anni, anche per darsi una giustificazione, una spiegazione, per comprendere un evento indicibile ha parlato spesso di “vendette personali”. Sicuramente tra le varie “motivazioni” che scattarono per dettare la lista di chi fu deportato, la personale antipatia avrà giocato un ruolo. Ma se non inseriamo la vicenda dentro quella della seconda guerra mondiale e, soprattutto, in quella ideologica dei fascismi, questa spiegazione appare monca. Erano state quelle ideologie a costituire un mondo fatto di “noi” e di “loro”, di una nazione ideologica nella quale chi era fuori da quella ideologia lo era anche fuori dalla nazione tout-court. È stato questo “brodo” è di coltura che ha permesso a “persone comuni” di passare sopra anche alla semplice umanità. Montelupo non aveva avuto scioperanti, e, per questo, avrebbe potuto evitare di avere anche deportati. Ma come per le “rappresaglie” commesse in Italia dai tedeschi (che spesso rappresaglie non erano), non è importante quello che i deportati avessero o non avessero fatto (altrimenti si rischia di dare una connotazione “causale” di un sistema che era invece ideologico. Nella ideologia il rapporto “causa-effetto” è dato dall’idea stessa non dalla realtà), ma quello che essi erano agli occhi dei loro carnefici. E. probabilmente, il direttorio fascista di Montelupo avrà avuto anche motivazioni più prosaiche, tra le quali, far vedere di essere prontamente ligio alle superiori richieste. Come ha scritto Primo Levi, si moriva per un sì o per un no.